C’è quel momento in cui ti accorgi che le cose – situazioni, progetti, rapporti – ti stanno sfuggendo di mano, scivolando inesorabilmente verso un posto in cui non sei nessuno, dove non hai potere di parlare né libertà di muoverti. Allora reagisci, gridi, combatti al massimo delle tue possibilità per salvare il poco che ti è rimasto, sia esso il sorriso, la dignità o l’ultima parola. Anche della sabbia che scorre tra le dita resta qualche granello attaccato alla pelle.
C’è un altro momento, ben peggiore, in cui quelle stesse cose sono ormai definitivamente perdute e lo sai, lo accetti o non lo accetti e piangi, ti guardi le mani e le trovi leggere, vuote e pulite, senza nemmeno un soffio d’aria da trattenere, perché sono rimasti solo i ricordi, alcuni dei quali scendono e svaniscono con le lacrime, con uno sbuffo o con un peccato uscito dalla bocca. Senza rendertene conto però stai già reagendo, è il tempo che guida, lui passa e, scorrendo, ti aiuta a ricominciare, creare e cercare cose nuove.
C’è un momento, subdolo e astuto, che non è il prima e non è il dopo, in cui sei convinto di poter mantenere il controllo su quelle cose, perché ancora da qualche parte ti appartengono, non sono perse né, pare, ti stiano scappando. Sei pensieroso ma relativamente tranquillo, vedi che sì, qualcosa nell’aria non ti fa respirare bene, non la individui, perché cercarla? E’ normale, sarà l’ansia, un po’ di stress, il caldo, in qualche modo comunque farai, domani si aggiusterà tutto, hai dato sempre il massimo e non può finire in una maniera che non ti aggrada. Più che altro, non può finire. Ti stai preoccupando per nulla, sei sempre tu. Arriva la sera, ti guardi intorno e ogni cosa è lì, anche oggi. Ritorna il giorno, ti guardi intorno e ogni cosa è lì eppure, stasera, chissà. Aspetti, vai avanti, sono solo impressioni, inutili paure. Permetti all’orologio di muoversi nell’unica direzione che conosce. Le mani stringono, quel che tengono non ti può sfuggire e non hai intenzione di allentare la presa, alla fine non devi inventarti altro. Del resto basta ancora un po’ di tempo, impegno, attenzione o forse solo restare se stessi e presto non ci sarà bisogno di usare la forza, sarà sufficiente vivere per ritornare a prima e liberarsi da questo fastidio che, diciamolo, non ha alcun fondamento.
Eppure, in un anfratto nascosto tra la testa e il cuore, più o meno all’altezza della gola, c’è un’ombra, consistente e pesante, che non ti fa deglutire e ogni tanto si manifesta come un colpo ben assestato sul petto. E’ il dubbio. Chi ti dice che hai una speranza? Dove è la garanzia che a breve andrà meglio? Perché dovrebbe andar meglio, se già ora le tue energie sono in riserva e lui, il dubbio, persiste? Lo avverti, lo senti muoversi come fosse animato, come fosse una persona con cui confrontarsi, un avversario da affrontare. E più lo inquadri, più diventa forte. Non te ne liberi, non capisci di cosa si nutra e cominci a credere ad ognuna delle voci che ti mette in testa. La mente però e la ragione ti suggeriscono di stare sereno. Esplori il cuore e batte, non è lì il problema, ammesso che ci sia, un problema. Non respiri bene, è vero, ti passi le dita sulla gola per controllare e ti chiedi se non stia soffocando. No, se vuoi, se ti rilassi un minimo, puoi prenderti tutto l’ossigeno che ti serve. Le mani sfiorano il collo, quasi lo afferrano e non avvertono nulla. Al tempo stesso, continuano a stringere ciò che non volevi perdere.
Quando capisci che il dubbio era nelle tue mani, che era proprio il dubbio a non potersi liberare dalla tua presa, è ormai troppo tardi.
Se vuoi…