
Protagonista è un bambino piuttosto introverso che va in settimana bianca con i compagni di scuola. Allo chalet in montagna non arriva però in pullman ma in auto, accompagnato dal padre paranoico, preoccupato dalle insidie del lungo viaggio. I genitori infatti sembrano essere molto apprensivi, motivo per cui il ragazzo ha sviluppato una certa timidezza e una grande immaginazione. I problemi di adattamento vengono amplificati quando si accorge che il padre è ripartito portandosi dietro il suo zaino, dimenticato nel portabagagli. Viene quindi aiutato dagli insegnanti ma ha timore di essere deriso dai compagni, perché non ha pigiama né cambi né uno spazzolino e, soprattutto, gli manca la traversina coprimaterasso per la pipì notturna. Proprio per questo, quando si sveglia per aver bagnato il letto, si finge nottambulo andando a dormire fuori, al gelo, si becca la febbre e da lì le sue fantasie si moltiplicano fino a sovrastarlo. Quando si diffonde la notizia del ritrovamento del cadavere di un bambino scomparso in una zona non lontana, il flusso di pensieri folli è ormai inarrestabile: si chiede perché il padre non sia tornato a portagli lo zaino, immaginandolo preda di una banda di trafficanti d’organi, fantastica sulla morte di un compagno, sullo sterminio dell’intera sua classe. Non accade niente di tutto questo, ma la verità che salta fuori nel finale è forse peggiore. Il romanzo si presenta come un viaggio nel viaggio, una serie di suggestioni del bambino attraverso cui Carrère mostra la sua abilità nel creare tensione e inquietudine, stavolta (ad oggi l’ultima, del 1995), con una storia inventata, prima di passare con successo a saggistica e narrativa basate su personaggi realmente esistiti e avvenimenti realmente accaduti. Anche se poi è più verosimile questa vicenda dei fatti di cronaca raccontati ne L’avversario o V13. Ma la cosa più incredibile è dover riconoscere, nonostante la mia diffidenza secolare nei suoi confronti, che alla fine Carrère non è così male.
Emmanuel Carrère – La settimana bianca




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