
Se il libro omonimo mi aveva toccato nel profondo, l’evento a teatro mi ha fatto venire i brividi. Non mi vergogno di dire che, in un paio di passaggi, mi sono ritrovato con gli occhi lucidi. Lo stesso testo, interpretato dall’autore tramite una narrazione viva e vivace, perfetta nei tempi, negli spazi e nei silenzi, che si avvale del canto e di una gestualità ipnotica, non ti lascia scampo, ti schiaffeggia mentre ancora stai elaborando il passaggio precedente o stai sorridendo per una battuta che pure fa parte dello spettacolo. Perché si tratta di un continuo emozionare attraverso una storia che è quella di Palermo e di un ragazzo come tanti, me compreso, cresciuto lì tra gli anni ’80 e ’90, quando la mafia, se proprio non la vedevi per strada, la percepivi e, in qualche modo, la ripudiavi, la scansavi, la schifiavi. In realtà, però, la vedevi. Tramite i morti ammazzati che solo se avevano un nome importante finivano in TV e nei giornali, altrimenti erano “ammazzatine”, omicidi minori, spesso tra mafiosi stessi che restavano a terra, a macchiare di sangue la città. Una storia che è quella di Falcone e Borsellino, del piccolo Di Matteo, di Don Pino Puglisi e soprattutto dei bambini, degli adolescenti, dei genitori che hanno convissuto con il male, cercando di non farlo entrare nelle proprie case. Ma entrava, tramite i notiziari, i racconti dei vicini, dei compagni di scuola. O tramite i botti. Le stragi preannunciate di Capaci e via D’Amelio, in particolare, sono arrivate ovunque e solo dopo, come una scossa, hanno risvegliato le coscienze, il coraggio, la necessità comune di ribellarsi, uniti. Davide tutto questo lo racconta con un linguaggio suo, sensibile e brutale per forza di cose, a tratti agghiacciante, sempre commovente. Lo sta facendo in giro per l’Italia. Io l’ho applaudito al Teatro India di Roma. E credo di esserci rimasto, perlomeno con il cuore. Non importa se sei nato in Sicilia o quanti anni tu abbia, è un monologo che consiglierei a chiunque, una storia che è anche tua.




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