
In mezzo ad una montagna di libri usati e impolverati, il giallo di questa copertina mi ha chiamato. Il risvolto parlava di un romanzo cult in Giappone e così ho iniziato subito a leggerlo. E in pochi giorni l’ho finito. E’ giallo pure di genere, anzi più poliziesco, anche se un po’ anomalo. Perché c’è un omicidio al centro della storia ma, come cerchi concentrici che si allargano fino a scomparire, vi si sviluppano intorno le micro realtà di tutti i personaggi coinvolti, dai genitori agli amici, dal presunto colpevole all’assassino, dai conoscenti alla vittima stessa. Che era abbastanza stronza e non meritava di morire. Non c’è una vera e propria indagine. Il colpevole, malgrado qualche depistaggio, è noto sin dall’inizio. Ciò che colpisce e rapisce è l’alternanza delle vicende che si intrecciano una dopo l’altra a ripetizione e che, con un certo pathos, approfondiscono non tanto il legame con il delitto quanto il contesto, lo status, il carattere e la psicologia di ogni individuo. Certo, sono giapponesi e quindi appaiono strani, per non dire alienati e rincoglioniti, almeno per noi esseri superiori, convinti esportatori di uguaglianza e sani principi. Emerge senza dubbio un senso di solitudine estremo che credo appartenga a gran parte del tessuto sociale nipponico, soprattutto tra i giovani. Le analisi così profonde tuttavia non mi appartengono, mi fermo alle emozioni che mi ha dato la lettura: avrei voluto giustizia, rivalsa, pentimento, un suicidio magari e invece no, la sorpresa di questo romanzo per me è stata la capacità di farmi provare compassione per l’assassino, attraverso il racconto superbo di uno spaccato di vita giapponese.
Shūichi Yoshida – L’uomo che voleva uccidermi




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