Non impiego molto a finire il cibo. Ho mezzo litro d’acqua o, meglio, quello che ne resta. Decido di razionarla. Un sorso ogni quarto d’ora, cioè ogni chilometro, dovrebbe garantirmi una discreta autonomia. L’orologio diventa il mio compagno. Un sorso non basta mai. Mi ritrovo a contare i minuti in attesa di poterne bere un altro. Inizio a scoraggiarmi. Non vedo un cazzo di niente in nessuna direzione. Mi prende lo sconforto. Sto male, sudo, zoppico e anche la mia volontà di ferro comincia a perdere colpi. Continuo a ripetermi che l’unica cosa da fare è camminare. E’ quello che faccio.
Poco prima di mezzogiorno, uno spiraglio. A circa due chilometri di distanza vedo una macchia verde. E’ un bosco, ce l’ho fatta. Il sorriso torna sulla mia faccia. Cammino più veloce, quasi senza sentire dolore. Mi vedo già con un boccale di clara in mano e un panino nell’altra, senza scarpe, sotto un albero a godere della sua ombra. Ho tre o quattro dita d’acqua che bevo avidamente per ricaricarmi e raggiungere più in fretta l’oasi, l’El Dorado che inseguo da ore. Mi avvicino al gruppo di alberi che diventa sempre più nitido. E’ su una collinetta. Verde. Solitaria. Il paese è sicuramente lì dietro. Raggiungo il punto più alto e mi viene da piangere. Quel boschetto è solo come me. Non c’è assolutamente nulla intorno e da lassù non riesco a vedere niente che assomigli ad un villaggio. Ho un po’ di ombra adesso ma niente acqua e niente cibo. Mi fermo, cerco di capire cosa fare. So bene però di non avere molte alternative: devo camminare. Mi metto al riparo dal sole per qualche minuto, cambio la maglietta, cerco nello zaino cose che non ho: cibo, gomme da masticare, cerotti per le vesciche. Trovo una bustina di antidolorifico che prendo senz’acqua. Sbaglio. Attutisce il dolore ma rende lingua e bocca così acide che poco dopo mi ritrovo a sputare saliva ogni minuto. Riprendo il cammino. Mezzogiorno è passato. Nel peggiore dei casi, dovrei aver percorso almeno quindici chilometri. La “calzada romana” sulla cartina è una linea bianca senza alcun riferimento e su cui non riesco a collocare la mia posizione.
Quasi completamente in balia dello sconforto, mi imbatto in un segno di civiltà. E’ una tavola di legno conficcata nel terreno con un bastone che riporta un’indicazione scritta a mano con un pennarello. Sono due parole in spagnolo che interpreto come “scorciatoia”. La freccia suggerisce la sinistra. L’ultima freccia gialla che avevo incontrato invece indicava dritto. Mi blocco. Osservo. Non si tratta di una strada alternativa, solo di un piccolo sentiero tra le erbacce di cui non vedo la fine. Del resto non vedo la fine nemmeno del sentiero principale. I dubbi mi assalgono. Sono distrutto, temo di non farcela. Temo di perdermi ma non metto in dubbio la bontà di quell’indicazione. Non credo possano esistere idioti che si divertano a disegnare frecce senza criterio. OK, prendo la scorciatoia. Non può mancare tanto al centro abitato, il cartello dovrebbe dimostrare che nelle vicinanze ci sono forme di vita umana. Abbandono la linea bianca su cui ho camminato fino a quel momento e il paesaggio diventa perfino più triste. Le erbacce crescono. L’orizzonte resta muto. Il percorso originario si allontana. Sono sempre più debole. Già da un pezzo ho capito che i miei calcoli sui quattro chilometri orari sono andati a farsi friggere. Poi, mi si gela il cuore nonostante il caldo. Il sentiero che stavo seguendo scompare tra le erbacce. Guardo dappertutto, in ogni direzione, per capire come procedere. Cerco una variazione del terreno, erba meno cresciuta, meno secca o di una tonalità di colore differente, un qualsiasi segnale. Niente. Sembra assurdo ma sono in un vicolo cieco. Mi inginocchio con la voglia di piangere. Non piango con gli occhi, dentro però sono a pezzi. Non so cosa fare. Tornare indietro vorrebbe dire camminare per un’altra ora e ritrovarmi allo stesso punto di prima avendo perso due ore. Avanti non posso andare, non ho alcuna certezza sulla direzione da prendere. La cartina non parla. Il sole invece mi minaccia quasi verbalmente. Mi seggo per terra, chiudo gli occhi e al buio provo a ragionare.
Quel giorno non lo dimenticherò. Oggi ne parlo con allegria, quasi vantandomi di ciò che sono riuscito a sopportare e superare. Nella vita ci sono sicuramente situazioni peggiori, eppure difficilmente ci si trova a dover lottare contro il nulla e contro se stessi. Non è stata una prova di sopravvivenza né una sfida tra la vita e la morte. E’ stata solo un’esperienza molto forte, una delle tante che mi ha regalato il Cammino di Santiago e che, tutto sommato, sono felice di ricordare.
C’era un motivo per cui non vedevo Reliegos: il paese si trovava in una vallata, quindi sotto la linea dell’orizzonte e il livello della strada che stavo percorrendo. Il sentiero scomparso non l’ho ritrovato ma, orientandomi, sono riuscito a riprendere il percorso originario camminando tra le erbacce. C’è voluta un’altra ora abbondante per scorgere finalmente, alle tre del pomeriggio, i tetti delle prime case. L’orologio che tante volte avevo guardato quella mattina copriva sul polso sinistro il mio primo tatuaggio, un simbolo che significa “nel mezzo”. Dal primo giorno di cammino avevo percorso quattrocento chilometri e altri quattrocento ne mancavano per arrivare a Santiago. Nel pomeriggio, con un boccale di clara in mano e un panino nell’altra, ho capito che niente mi avrebbe più fermato. Nove giorni dopo avrei completato il Cammino.
Se vuoi…