
La serie è da poco uscita su Netflix, è ambientata a fine ‘800 in Irlanda, ricorda un po’ Peaky Blinders, senza violenza e senza il protagonista e, come suggerisce “vagamente” il titolo, tratta delle vicende della famiglia che ha fatto conoscere al mondo la birra Guinness, la mia preferita. Vicende, in realtà, solo di una parte della dinastia, cioè dei quattro fratelli che ereditano la baracca da Sir Benjamin Guinness, l’uomo capace di trasformare il piccolo birrificio creato dal bisnonno un secolo prima in un’azienda florida, dagli enormi ricavi e dalle grandi responsabilità. Vicende oltretutto romanzate, ma firmate da una produzione che annovera tra le sue fila, mi pare di aver letto da qualche parte, una diretta discendente della famiglia. Sir Benjamin lascia un testamento blindato, che costringe i fratelli a collaborare tra loro, anche facendosi da parte: l’unica femmina infatti non riceve nemmeno un soldo e così anche il maschietto più piccolo, pecora nera con il vizio dell’alcol. I due fratelli maggiori si spartiscono la guida: al primogenito tocca impegnarsi in politica, ha però il non trascurabile dono di essere gay, che al tempo è illegale e punito con l’arresto; il secondogenito è ambizioso e intraprendente, al punto da voler conquistare il mercato americano, e purtroppo si innamora, ricambiato, di un’indipendentista irlandese con la quale non può avere un futuro. Gli spunti per una storia avvincente non mancano. E nemmeno gli intrighi, sia interni alla famiglia (è complicato essere ricchissimi) sia di impatto sociale, storico e religioso, visto il peso e l’importanza che i Guinness ricoprono nel difficile panorama irlandese di quel periodo, prossimo alla guerra civile. Non basta una bevuta gratis per mettere tutti d’accordo. Alla Guinness però è andata bene, almeno a giudicare dal successo attuale e dai primati che ha certificato. La serie non lo racconta, rimandando gli sviluppi a chissà quante altre stagioni che seguiranno. Nel frattempo, fermento.




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