
Leggendo un’opera di Gogol’, ho pensato che finalmente avrei potuto atteggiarmi ad intellettuale nei circoli di letteratura e nei teatri di élite. Invece sono rimasto a frequentare centri sociali e pub, dove mi atteggio lo stesso, ma in modo diverso, leggendo al massimo le caratteristiche e i prezzi delle birre. Non è colpa di queste Memorie o forse solo un po’, perché mi aspettavo un testo impegnato e non il racconto breve che, per quanto brillante, risulta essere poca cosa per identificarlo con la grandezza dell’autore. Scritto in forma di diario, il racconto segue la progressiva discesa verso la follia del protagonista, un modesto funzionario di un ministero di San Pietroburgo – siamo nella Russia dei primi dell’800 – che soffre per la sua posizione subalterna, ossessionato dalle gerarchie e schiacciato da un sistema che lo ignora. Ha una vita grigia ed è innamorato della figlia del direttore, senza essere minimamente corrisposto. Quelle che all’inizio sono annotazioni sulla quotidianità diventano via via riflessioni sempre più deliranti, in cui la sua mente si sgretola. Inventa date inesistenti (tipo il 43 aprile), crede che i cani parlino e si scrivano lettere, si convince di essere il re di Spagna e, nemmeno quando viene internato in un manicomio, ritrova un minimo di collegamento con la realtà. La follia diventa il suo rifugio. Ora, perfino per me, è impossibile non cogliere una critica alla burocrazia e alle classi sociali dell’epoca, come è impossibile non capire che le fantasie dell’uomo siano una sorta di rivalsa immaginaria per ribaltare il proprio stato di anonimato e continua umiliazione. Aggiungo che pure io ho notato alcune chicche tra le pagine, note grottesche ma rivelatrici di un’identità che si annulla. Detto questo però mi fermo. Dall’alto della mia ignoranza, non vorrei inoltrarmi in un’analisi che non ho i mezzi per approfondire. Sarei un pazzo se lo facessi.
Nikolaj Gogol’ – Memorie di un pazzo

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