
Tra le ultime novità di Netflix, Cassandra mi sembrava la meno peggio da guardare nelle pause pranzo da smart working. E l’ho guardata. Le premesse erano interessanti. Non originali ma interessanti. Una famigliola tedesca (perché la serie è tedesca) va a vivere in una casa che negli anni ’70 era all’avanguardia tecnologica, poiché governata da un’intelligenza artificiale. Di fatto, ci sono monitor antiquati e sensori ovunque e un robot, Cassandra, dalle sembianze di una lucidatrice con un televisore al posto della testa, che parla, osserva e si muove per le stanze come fosse una domestica. Gli inquilini la scoprono per caso, attivando un sistema di vecchi computer che occupa tutta la cantina. Ed essendo simpatica e utile, la lasciano fare. La narrazione si svolge su due livelli: il presente, in cui Cassandra mostra qualche disturbo che sfocerà in violenza e il passato, che racconta come Cassandra è stata creata. Si scoprirà che il robot-lucidatrice era una donna in carne e ossa la quale, malata terminale, accetta di far trasferire i suoi neuroni nel sistema computerizzato ideato dal marito, genio pazzo, per vivere in eterno. Cassandra non è quindi propriamente un’AI, ma un essere umano senza corpo che ha ricordi terribili e desideri inquietanti. Qui iniziano le prime crepe nella sceneggiatura, perché la lucidatrice cercherà con ogni mezzo di sostituirsi alla mamma per appropriarsi di un ruolo in famiglia. Con “ogni mezzo” si intendono l’apriscatole, il frullatore, lo sbattitore per le uova e altri strumenti da cucina che, “in mano” ad un pezzo di plastica che si muove come un bradipo, diventeranno armi letali. Siamo all’apoteosi del ridicolo. Ci sono scene da B-movie pietose, rese peggiori dall’impegno che ci mettono gli attori e risvolti che vorrebbero far riflettere sulle ripercussioni dell’AI nelle nostre vite, con l’unico risultato però di suggerire l’acquisto di un nuovo microonde.




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