
Una serie ambiziosa di una decina di anni fa che, su suggerimento di Netflix, ho pensato potesse piacermi ma che evidentemente non è piaciuta a tutti visto che non è stata rinnovata per una terza stagione. Amen. L’ho vista comunque nella speranza che non mi abbandonasse sul più bello. Ambientata alla fine dei turbolenti anni ’60 a Los Angeles, racconta di una coppia di detective che, tra un caso e altro, si trovano a fare i conti con la Famiglia di Charles Manson, negli avvenimenti precedenti agli omicidi di Cielo Drive, dove furono uccise cinque persone, tra cui Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, incinta di otto mesi. Questa però è la punta dell’iceberg della seconda stagione. Prima di arrivare lì, gli episodi ruotano intorno alle storie dei protagonisti, David Duchovny su tutti, che riguardano intrighi famigliari, intrighi al distretto di polizia, intrighi a sfondo sociale per via del razzismo, delle crescenti proteste dei neri e dell’omicidio di Martin Luther King, intrighi politici con Nixon, la guerra in Vietnam e perfino l’omicidio Kennedy di qualche anno prima. Un polpettone di intrighi su cui spicca, parallelamente e ricostruita abbastanza fedelmente, la vicenda Manson dagli albori, ancor prima che diventasse il famigerato criminale. La star tuttavia è Duchovny, poliziotto infallibile, dai metodi discutibili, che sfodera continuamente il suo fascino e non sbaglia un colpo, soprattutto con le donne. Per me, ha sbagliato solo X-Files ma questa è un’altra storia. Nel complesso è una serie interessante e godibile che, forse, ha avuto l’unico difetto di voler inglobare tutto, diventando ingorda di temi e argomenti trattati in maniera un po’ superficiale. Pure Manson appare affascinante e, del resto, lo era. Almeno fino a quando il supersbirro non lo ha massacrato di botte. Peccato non sia accaduto nella realtà.




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