
Nonostante Netflix l’abbia messa in cima alle classifiche, penso sia una di quelle serie che abbiamo visto in due: io e la persona che me l’ha consigliata e non perché sia brutta ma perché è “quasi normale” come la famiglia di cui in teoria parla, cioè abbastanza piatta, senza grossi acuti né attori particolarmente bravi né colpi di scena eclatanti. Tuttavia si fa seguire e di questi tempi non è poco. Ambientata nella algida Svezia, racconta di un omicidio per il quale è stata arrestata una ragazza e delle conseguenze che colpiscono la vita del padre, un pastore della chiesa più pacato di un crocifisso, e della madre, un’avvocatessa a cui piace bere e che tradisce il marito con ardore a candore. Entrambi sono premurosi nei confronti della figlia per via di un trauma di anni prima ma, al tempo stesso, non si preoccupano dei suoi veri bisogni e, un po’ come gli altri personaggi e forse come gli altri svedesi, sono affettuosi e sentimentali quanto un ghiacciolo. La ragazza poi, va detto, non mostra mai il massimo della perspicacia e, quando alla fine della storia realizza il suo desiderio di viaggiare in un paese caldo, fa un bene alla comunità, a se stessa, alla famiglia e a tutta la Svezia. Perché di quasi normale, da quelle parti, non c’era proprio nessuno.




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