Nonostante i miei stupidi intenti di convincermi che non meritasse tutti gli elogi ricevuti, devo riconoscere di aver letto un libro carino, ben scritto e pieno di significati e interpretazioni. Gli animali protagonisti non sono certo una novità ma l’autore, giovanissimo, è stato bravo a renderli umani e riflessivi, mettendo da parte gli aspetti crudi e selvaggi della natura a favore di un contesto più razionale. E’ proprio sul contrasto tra istinto e ragione che la faina Archy decide di raccontare la propria esistenza, dopo aver imparato a leggere e a scrivere, aver conosciuto la figura di Dio e aver imparato i concetti di tempo e morte. Nozioni che la porteranno ad essere più vicina all’uomo che all’animale e che pertanto le distruggeranno la vita. Gli animali infatti ignorano la morte e lo scorrere del tempo, non credono in un dio che crea e disfa a piacimento e non hanno bisogno delle parole per spiegare la loro vita. Vivono o sopravvivono e basta. Archy invece apprende, impara, pensa e ragiona e non riesce a trovare una via d’uscita dal disegno di Dio, fino a che in qualche modo accetta il suo destino e capisce che il potere delle parole (e dei libri) può renderlo immortale. C’è del moralismo tra le pagine e Zannoni, volente o nolente, appare anche molto paraculo ma riesce in pieno nel suo intento, tutt’altro che stupido, di farsi apprezzare. A differenza di Archy che della faina ha ben poco e che se ne fotte di farsi apprezzare, a patto di continuare ad esistere, dopo la morte, attraverso il racconto della propria vita. Motivo per cui il Premio Campiello avrebbe dovuto vincerlo l’animale piuttosto che l’uomo.
Bernardo Zannoni – I miei stupidi intenti
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