Era il secolo scorso, non avevo nemmeno vent’anni e già collezionavo cottarelle per ragazze più esperte che da me volevano solo una cosa. E no, non era quella cosa. Volevano l’amore eterno, non esattamente la massima aspirazione per uno come me che ancora si attaccava le etichette delle banane in fronte. Ciò nonostante – ne ricordo almeno tre – riuscivano tutte a fottermi, in ogni senso e modo. Mi mostravo un po’ stronzo all’inizio (almeno così pareva, in realtà ero solo timido), poi cedevo e abbassavo la guardia diventando il fidanzato adorabile che avevano sempre desiderato. A quel punto, di solito dopo un paio di mesi, gli equilibri cambiavano: più davo al rapporto, meno ricevevo; più cercavo spiegazioni, meno ne ottenevo; più confidavo nell’amore eterno, meno lo facevo. Questo mentre loro, più o meno, continuavano a stare con me. Alla fine della storia ero io che decidevo di chiudere. Tanto orgoglioso quanto ingenuo da non capire che il progetto diabolico era stato scritto da un pezzo e prevedeva la mia dipartita.
Una di queste ragazze, oggi sposata, madre di due figlie, titolare – credo – di un’edicola e antiquata come un cero, dopo un brevissimo flirt in palestra e la sua sparizione per i due anni successivi, una mattina si è svegliata e ha deciso che ero l’uomo della sua vita. Io allora svolgevo il servizio di leva lontano da casa ma il destino aveva voluto che proprio quella mattina mi trovassi in città. Lei non aveva mie notizie da quando sollevavamo pesi, sapeva a malapena in che zona abitavo eppure, chissà in quale modo, è riuscita a rintracciarmi e a consegnarmi una bellissima lettera d’amore, di carta, lunga e piena di cuoricini. Tipo Foxy. Pure le vocali erano a forma di cuore. Chiaramente ci ho creduto, ero un paracadutista e mi sono buttato.
Passati due mesi, qualcosa (un campanello d’allarme, una spia o un suo fratello) avrebbe dovuto avvertirmi che il livello di guardia era al minimo, non avevo imparato niente dalle esperienze precedenti. Abbiamo condiviso momenti intensi e persino il mio letto singolo, scambiato regali, mangiato gelati. Da qualche parte ho ancora una cassettina con il suo nome che aveva registrato per me. Sorvolo sul genere di musica che ascoltavamo, del resto ero giovane e incosciente. Decidiamo di tentare un primo approccio di fidanzamento ufficiale tramite le piastrine dei militari, quelle di metallo che si portano al collo, per inciderci i nostri nomi e un fantastico “per sempre”. In grassetto, corsivo, sottolineato. Lascio le targhette dall’incisore e, felice, il mio futuro prende forma nella testa: due figlie, un’edicola, una moglie antiquata come un cero. Il giorno dopo la becco al telefono che parla con il suo ex: non di ricette, non di calcio né di politica, parlano di amore eterno. Naturalmente tocca a me troncare il rapporto seduta stante, lei lo avrebbe portato avanti fino al terzo figlio, maschio magari, col dubbio sulla paternità. Lo stesso pomeriggio corro e riesco a fermare l’incisore il quale, con un’espressione che non dimenticherò mai mi fa “oh, fortuna che era per sempre!”. Dall’eternità al nulla in meno di ventiquattr’ore.
Non ho portato più niente al collo tranne, solo di recente, la sciarpa. Non ho ascoltato altra musica di merda e ho smesso di lanciarmi con il paracadute, mi butto senza. I campanelli d’allarme e le spie non hanno mai funzionato. Infatti continuo a credere in quel fantastico “per sempre”.
Se vuoi…