Alla mamma non si sfugge. Al papà a volte sì, ma per il semplice fatto che con lui è possibile scontrarsi e quindi, ogni tanto, solo ogni tanto, uscirne vincitori. Con la mamma la lotta è impossibile e impari. Basta un tuo sguardo di sfida e lei subito assume la fisionomia della madonna martire che tutta la vita ha dedicato ai figli, rendendoti inerme e pieno di dubbi sul motivo del contendere anche se fino ad un attimo prima eri sicuro di avere pienamente ragione. Lei invece, che nel frattempo ha indossato pure il manto blu della trascendenza, riesce a impietosirti senza far nulla, trasformandoti in un essere immondo, a livello tale da dubitare persino dell’utilità della tua esistenza, proprio perché la vita è stata un regalo che lei ti ha voluto donare ricevendo in cambio solo sacrifici e patimenti. E proprio nel momento in cui dubiti e pensi di essere una nullità per aver creduto di poter discutere con la mamma, ecco che lei accenna un sorriso tipo Gioconda, che c’è o non c’è a seconda di come la guardi, rassicurandoti su quanto ti vuole bene, che sei il suo orgoglio e che avrebbe dato qualsiasi cosa per farti venire al mondo. Nel frattempo, quella discussione che hai solo pensato di mettere in piedi per un suo torto evidente è morta e sepolta e tutte le tue motivazioni, oggettivamente impeccabili, sono finite nella tomba anch’esse.
A me fa sempre piacere andare a trovare i miei genitori. In un certo senso è come tornare a casa anche se la mia casa non è più lì dove vivono loro, a centinaia di chilometri da me. Purtroppo non ci vediamo spesso ma ci sentiamo ogni giorno per telefono per il tempo di una conversazione che varia dai tre ai quattro minuti, a seconda o meno che ci siano novità nelle nostre rispettive vite, per cui ogni volta che torno da loro vengo accolto come il figliol prodigo. Questo però, proprio con la mamma, può diventare un problema serio.
Arrivo all’aeroporto e non posso permettermi di prendere un trenino o un autobus per raggiungere, diciamo, casa. Me li trovo sotto la scaletta dell’aereo con mia madre che già piange perché pensa a quando dovrò ripartire. Mio padre, seguendo l’ordine categorico della mamma, mi porta la valigia e a niente valgono i miei tentativi di rendermi autonomo. A casa – continuiamo a chiamarla così – trovo la tavola imbandita stile Luigi XIV nonostante siano le sei del pomeriggio e puntualmente, tra un’infinità di portate che vanno dal primo al dolce, dal secondo al quattordicesimo, trovo una cotoletta. Tutto il mondo sa che io odio la carne da quando sono nato ma mia madre continua ad ignorarlo e quella fottuta cotoletta impanata mi perseguita anche nel sonno. Puntualmente la rifiuto. So già che la ritroverò alla mia prossima visita per cui la saluto con un arrivederci piuttosto che con un addio. Mi sta quasi simpatica la cotoletta, un giorno mi convincerà a farsi mangiare. A tavola, attorno alla quale siamo ancora seduti alle nove di sera, ininterrottamente da tre ore, non posso permettermi movimenti sospetti. Anche muovere una mano per prendere il sale può diventare sinonimo di qualcosa che non va. Nella mente di mia madre – lo noto dalle espressioni del suo viso – si susseguono pensieri precisi: “c’è poco sale”, “spero non metta troppo sale che non fa bene”, “eppure ho messo il sale come piace a lui”, “col sale starebbe bene anche il pepe, lo prendo subito”, “oltre al pepe è meglio prendere anche tutte le spezie”, “e tutte le salse”, “gli preparo un’altra cosa, questa era poco salata”, “cambio i piatti sporchi”, “chissà perché non mangia mai la cotoletta”. Nel frattempo mio padre prova ad assaggiare uno dei piatti a me riservati. Non riesce nemmeno ad annusarlo ché mia madre lo ha già rimproverato perché mangia troppo. Per lui ci sono le carote bollite. Senza sale.
Mi alzo da tavola, o almeno ci provo, più pesante di otto chili, uno per ogni portata che ho mangiato. Ma la domanda arriva puntuale: “non prendi la frutta?” e improvvisamente si materializzano delle fragole sull’ultimo piatto da me usato, che nel frattempo è stato lavato e lucidato. Le banane spuntano dal lampadario, le arance sono ovunque. Non si può dire che la mamma non sappia che frutta mi piace. Cerco in modo impercettibile di scivolare dalla sedia, forse strisciando e rotolando potrei arrivare alla mia stanza, dista solo pochi metri. Ce la faccio.
Cerco la valigia, la trovo vuota. La mamma ha già preso tutti i vestiti per lavarli. Torno indietro per chiedere dove siano ma, uscendo dalla stanza, mia madre mi viene incontro con i vestiti lavati, stirati e improfumati. Ha fatto tutto mentre io ero a tavola, tra una portata e l’altra. Ha anche aggiunto due camicie nuove, sempre di una taglia più grande. Mi ha comprato anche un pigiama, il quarto negli ultimi due anni. Come con la cotoletta, non riesce ad accettare il fatto che io il pigiama lo detesti, non l’ho mai usato. Anche questo finirà nel cassetto insieme agli altri, inutilizzato.
La doccia è il mio momento. Posso chiudermi in bagno senza pericolo. Posso scegliere tra due, tre docciaschiuma e sette shampoo differenti. Dopo la doccia, torno in stanza per rivestirmi e la mamma nota che c’è qualcosa di strano. “Come mai si sta rivestendo invece di andare a letto o sedersi davanti al computer? Non starà mica uscendo a quest’ora?” sono i suoi pensieri che si tramutano in parole. Saranno le undici di sera. Le spiego che non è poi così tardi, che a volte esco anche più tardi, che non farò tardi, che mi sveglierò tardi. Aggiungo che potrei anche non tornare e non perché sarò morto o mi avranno arrestato ma perché potrei anche trovare compagnia per la notte. “Perché, i tuoi amici non vanno a dormire?” mi chiede. “Una ragazza! Potrei passare la notte con una ragazza!”, rispondo. Il punto esclamativo è solo figurativo, nella mia voce non c’è e non ci può essere variazione di tono. “Preservati” è la sua ultima parola.
Il mio letto è principesco. Ci sono cuscini a sufficienza, anche per poggiare i piedi quando mi alzo. Le coperte sono stratificate come se ci trovassimo in Groenlandia. Lenzuolo di flanella, copertina e copriletto o piumino a seconda della stagione. Manca la pelle d’orso ma solo perché siamo a marzo. In più trovo anche lo scaldasonno, una di quelle cose che odio insieme alla cotoletta e al pigiama, tra l’altro sempre regolato al massimo della temperatura. In pratica non è un letto, è una sauna.
La mattina dopo ci ritroviamo a colazione. Fino a qualche tempo fa, la mamma mi chiedeva cosa volessi perché sa che la mia colazione è sempre stata molto rapida, non mi piace stare seduto a tavola la mattina. Adesso il vuoi questo o il preferisci quello sono diventati imperativi: prendi questo, assaggia quello, ti ho comprato questa, quella è buonissima.
Non posso spostarmi da una stanza ad un’altra senza aver spento la luce. Non posso lasciare il computer acceso la notte perché non si sa mai cosa può succedere, un corto circuito potrebbe innescare un incendio che brucerebbe la casa. Non posso aver mal di testa, cosa che non sopporto insieme alla cotoletta, il pigiama e lo scaldasonno, che subito tutti i medicinali presenti in casa si mischiano in un cocktail che curerebbe pure il cancro.
A casa, chiamiamola ancora così, in pratica non ho scampo. Ma la mamma è la mamma, a me va benissimo così, non cambierà mai e a nulla serve provarci perché le sue premure sono dettate dal cuore. Ne sa qualcosa anche mia sorella e ancor di più il figlio di mia sorella, mio nipote, che ancora è un bambino, troppo giovane e innocente per capire a cosa sta andando incontro a forza di telefonare alla nonna ogni giorno. Loro vivono ancora più lontano di me e le attenzioni della mamma-nonna, si sa, sono proporzionali alla distanza che li (ci) separa. In fondo è soprattutto per merito suo – e del papà – che casa non è soltanto un luogo ma una condizione mentale, uno stato in cui ti riconosci e che spesso non corrisponde a dove vivi quanto semmai a dove hai vissuto e sei cresciuto. Più vai a vivere lontano e più casa diventa quel luogo in cui sono rimasti i tuoi genitori. Più vai a vivere lontano e più ti rendi conto che, prima o poi, quella maledetta cotoletta ti mancherà.
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