Uno, nessuno e ventitré

Eric

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Una serie Netflix ambientata negli anni ’80 a New York, dove pare che criminalità, povertà, diseguaglianze, corruzione, AIDS, omofobia, prostituzione minorile e razzismo fossero all’ordine del giorno. Io non lo so perché non c’ero ma lo sa Benedict Cumberbatch che, per arricchire il quadro drammatico, interpreta (magistralmente peraltro) un padre di famiglia disturbato, alcolizzato ed egocentrico. E non è finita. La moglie ha un amante segreto di cui resta incinta e, fulcro della trama, il figlioletto di nove anni sparisce in circostanze misteriose. Fa pure un po’ freddo. Insomma, mancherebbe solo il suicidio del protagonista per completare il quadro delle disgrazie. Invece arriva Eric, un pupazzo orco immaginario che l’uomo, in preda ai deliri, crea nella propria mente elaborando i tanti disegni lasciati dal figlio scomparso: un mostro interiore con il quale dialoga ad alta voce e che rappresenta la sua coscienza. Eric non è cattivo, solo stronzo e realista e in qualche modo aiuterà il povero papà a ritrovare il bambino, mentre il resto del mondo seguirà la pista del rapimento, nella speranza che sia ancora vivo. Perché, al di là del lato “fantastico” che potrebbe far pensare ad una storia leggera, tante sfaccettature e vicende parallele danno un tono drammatico a tutti gli episodi. Certo, gli stereotipi si sprecano (il poliziotto nero e gay in primis), non c’è mai grande pathos e alla fine resta un non so che di incompiuto, nonostante il pentolone pieno di spunti mischiati insieme e bolliti. La cosa più bella della serie probabilmente è quella New York così brutta.

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