
Lo straniero in questione è Arthur Mersault, un personaggio che a me ha ricordato molto lo scrivano Bartleby di Melville, per la singolarità del carattere fuori dal mondo e quella “simpatica” capacità di eludere le domande facendo incazzare chi le pone. Meursault però è anche straniero di se stesso. L’apatia, l’assenza di emozioni e la quasi totale passività nell’accettare ciò che succede, nel lasciarsi trasportare dagli eventi, nell’osservare gli altri senza interferire, lo rendono estraneo sia alle persone sia agli avvenimenti. E quando uccide un uomo, per caso, secondo il suo punto di vista e per il suo modo di essere, non fa nulla per difendersi né si pente del crimine, convinto che nessuno possa avere il diritto di giudicare le sue azioni. In carcere tuttavia sembra rendersi conto che la sua routine, la quale comprendeva pure cose che apprezzava, tra cui l’amore di una donna, gli mancherà: capisce cioè che non ci sarà più, non esattamente che ne subirà la mancanza. E troverà un motivo, forse valido stavolta, per abbandonarsi al destino e restare consapevolmente solo, senza lottare, in un territorio sconosciuto che è la breve vita da condannato a morte. Ad un certo punto si sentirà perfino felice poiché realizzerà che il mondo stesso, come lui, è indifferente al destino degli uomini e, in questa sorta di complicità, arriverà pronto alla sua esecuzione. Sarebbe bello pensare che se ne fotta anche di quella, chiudendo un cerchio. Ma non credo sia così. Il romanzo ha tanti significati, sfaccettature, interpretazioni di cui io, da straniero delle recensioni (che infatti chiamo non-recensioni), a malapena ho colto qualcosa. Ho detto la mia, pure troppo e ora me ne posso tornare nell’indifferenza di chi mai leggerà.
Albert Camus – Lo straniero




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