Diciamolo subito, non è stato difficile. A chi è abituato ad allenarsi in vasca ogni giorno per tre, quattro, cinque chilometri, attraversare lo Stretto di Messina viene quasi naturale. Quasi però. Perché le acque libere, mare o lago che siano, sono veramente un altro sport rispetto alla piscina. Il sale rende l’acqua meno pesate ma le onde, le correnti e la temperatura imprevedibili possono complicare qualsiasi bracciata. Questa poi non era una gara, non c’era un cronometro da rispettare né avversari da battere. Era la Traversata, il trasporto di un’emozione dalla Sicilia alla Calabria, nel tratto in cui il Tirreno e lo Ionio si incontrano, dove dicono di voler costruire un ponte per unire ciò che non è mai stato realmente diviso. Il mare non divide, anzi unisce più di quanto faccia la terra, perché non ha confini. E noi, trenta individui di varie provenienza, sesso ed età, lo abbiamo visto e vissuto quella mattina. Le testoline con la cuffia bianca e le braccia e i piedi che spuntano dall’acqua rendono quasi impossibile distinguere l’uno dall’altro, siamo tutti uguali.
Ad eccezione di un paio di volti divenuti familiari con gli allenamenti organizzati apposta per l’evento, non conoscevo nessuno quando sono arrivato, il pomeriggio prima. La sera eravamo già tutti amici: triatleti, nuotatori o semplici appassionati provenienti da tutta Italia – e uno perfino dagli USA – seduti a tavola in riva al mare a mangiare pesce e cannoli e parlare di sé, delle proprie avventure, delle proprie aspettative. E’ stata come una festa.
Con fomento e fermento, come dice qualcuno, ci ritroviamo la mattina dopo. Non ho chiuso occhio a causa del caldo e della musica di un locale sotto la mia camera ma sono pronto, lo sono dal momento in cui mi sono iscritto, mesi fa. Con non poca fatica, indosso il “costumone” riesumato dal cassetto in cui dormiva da anni, visto che nelle gare in vasca è stato proibito. Qui posso sfruttarlo invece. L’organizzatore, in briefing, ci ribadisce alcuni aspetti sulla sicurezza e sottolinea giustamente che non siamo lì per fare il tempo, per quello ci sono le gare. Siamo lì per fare lo spazio infatti, e farlo tutti insieme. E’ importante seguire la propria barca di appoggio che sceglierà la migliore traiettoria per noi ed è fondamentale non staccarsi dal gruppo. Conta solo arrivare e soprattutto godersela.
Non ho mai nuotato così tanto in mare, adesso “temo” che ripeterò l’esperienza parecchie altre volte. Senza presunzione riconosco di non aver fatto molta fatica, di non avere spinto, di essermi rilassato, buttando un occhio alla barca e uno ai compagni, dando uno sguardo avanti alla costa che si avvicinava e uno indietro alla costa che lasciavo. Il fondale non esiste, è solo nero, tanto vale alzare un po’ la testa e ripetermi “dove cazzo sono!” per descrivere la sensazione. Come quella mia prima volta in Africa, sotto la luna, in mezzo al nulla, in totale assenza di luce, seduto da solo per terra a guardare il cielo e le miriadi di stelle.
Correnti quasi assenti, solo qualche onda fastidiosa, temperatura ideale, niente meduse, men che meno quei fantomatici squali di cui si parla invano da sempre. Il barcaiolo, Jimmy “l’indiano”, con la camicia hawaiana e il cappello di paglia avrà attraversato quelle acque migliaia di volte. La barca ogni tanto mi spinge verso destra per aggiustare la direzione, qualche gesto e qualche parola che mi arriva all’orecchio suggeriscono che stiamo andando bene. La verità è che non voglio arrivare, non mi va che finisca troppo presto: la meta non è la costa calabrese, la meta è la traversata.
Quando tocco terra, tra pacche sulle spalle e strette di mano, sono felice ma non del tutto appagato. L’emozione l’ho addosso, l’ho portata dall’altra parte e resterà con me a lungo, come molti degli amici che ho trovato e che ringrazio. Ho depennato un’altra voce, importante, dalla mia to-do list, eppure ho già voglia di rimettermi in moto, sono ancora tante le cose che voglio fare e non vedo l’ora che arrivi la prossima avventura, in acqua, in terra o, chissà, in cielo.
Se vuoi…