Me lo avevano detto. Mi avevano avvertito che, conoscendomi, messo un piede in Africa – senza scarpa – avrei rischiato di metterci anche l’altro e non staccarli più entrambi, per rimanerci. Sono tornato invece. Non tutto intero perché lì qualcosa di mio ho lasciato ma abbastanza carico di ricordi ed esperienze da aver già voglia di ripartire per misurare nuovamente quel rapporto tra dare e avere che oggi pende sicuramente dalla mia parte.
Ero già stato in Africa più di una volta. Quella che conoscevo però non era la stessa Africa, era europea, turistica e inconsapevole. L’Africa che ho visto stavolta è fatta di fame e paesaggi, di terra e bambini, di colore e sudore ma specialmente di sorrisi. Sorridono sempre tutti, anche per la vergogna o per lo stupore, quando salutano, mangiano o rispondono, forse anche quando muoiono. Quando pregano.
Andiamo in chiesa la prima domenica. Siamo arrivati da poco, non abbiamo lavoro da portare avanti, siamo stati invitati, nessuno sa che sono ateo e, se anche lo sapesse, sorriderebbe. Mi stupisco del numero infinito di bambini che, tuttavia, non sono venuti per la messa, sono venuti per noi. E’ come una festa nonostante due settimane prima sia morto l’anziano capo del villaggio e il lutto persista nell’aria. La chiesa è l’unica costruzione, diciamo, in cemento, è apparentemente solida, ha un piccolo palco e file di bassissimi muretti che fungono da panche per sedersi. Si capisce che è una chiesa dalla presenza sul palchetto di un uomo nero di bianco vestito, il prete, e di una croce storta poggiata al muro senza Gesù. Suppongo che sia fuggito da quel posto o, più verosimilmente, che non lo abbia mai visitato.
C’è un bambino all’ingresso che noto più degli altri. Anzi è lui che si fa notare. Avrà sei o sette anni al massimo, indossa una maglia a maniche lunghe strappata e bucata che una volta era bianca e blu. Neanche a dirlo, non porta le scarpe ma lo sporco sì, di quello addosso ne ha a sufficienza, più scuro della sua pelle. Non parla con gli altri, sta in disparte ma sempre in primo piano. Si porta dietro un copertone di una ruota di bicicletta e un legnetto che scoprirò essere il suo gioco, lo stesso dei nostri nonni che correvano colpendo e spingendo con il bastone la ruota lungo la strada. Non sapevo ancora che quel bambino avrebbe percorso chilometri nei giorni seguenti per mostrarmi quanto fosse bravo a spingere la ruota e ricevere la mia attenzione. Non sapevo ancora che quel bambino fosse Kalifa.
Tra orazioni, canti e preghiere, l’unica figura maschile con la barba incolta e un sesto senso di-vino è la mia, con la differenza che io, più dei pani e dei pesci per sfamare, sembro moltiplicare solo i bambini da sfamare. Ce n’è uno, purtroppo un po’ ritardato, che protegge con un pezzo di stoffa dei biscotti. Gli altri lo guardano con desiderio allungando ogni tanto la mano con un’espressione che non dimenticherò mai. Nessuno tuttavia esagera, nessuno appare presuntuoso, nessuno ruba. Ed è una regola generale.
Kalifa è seduto accanto al bambino con i biscotti, mi guarda in continuazione cercando un sorriso, un cenno, qualcosa che gli faccia capire di esistere ai miei occhi. Noterò questa cosa in tutti i bambini del villaggio ma in lui più di ogni altro. Il bambino biscottato mangia, è piccolo e sbava, impasta, sbriciola come farebbe chiunque alla sua età. Mi commuovo quando vedo Kalifa raccogliere con le dita le briciole da terra e mangiarle di nascosto preoccupandosi di non farsi vedere da me soprattutto, lui che fino a quel momento aveva fatto esattamente l’opposto, manifestando la sua presenza in tutti i modi possibili, senza tuttavia mai parlare. Una bambina lo imita ma nient’affatto preoccupata di nascondersi. Nel frattempo, un altro marmocchio ancora più piccolo, che si era addormentato sulle mie gambe, si sveglia e il bambino con i biscotti magicamente gliene offre uno. Poco dopo, un pezzo per volta, lo farà anche con tutti altri prima di andare via mentre ancora il prete canta messa. I biscotti erano solo tre.
Ho giocato parecchio con i bambini quella mattina e, quando possibile, nei giorni successivi. Kalifa mi ha seguito ovunque, anche nei miei pellegrinaggi senza meta attraverso il villaggio. Gli ho chiesto il suo nome, quando ancora non lo conoscevo, in tutte le lingue a me note, compresa quella universale dei segni e ogni volta rispondeva di sì con la testa e così a tutte le mie domande. Mi ha fatto tenerezza quando alcuni bambini più fortunati lo hanno preso in giro per via del suo vestitino rosa che lo faceva sembrare una femminuccia. Non gli ho più visto indossare nulla di diverso. Mi ha fatto ridere quando, da solo, si è messo a giocare con ciò che restava di un tavolo da biliardino, utilizzando un sasso al posto del pallone e immaginando chissà quali scenari data la mancanza persino delle aste per muovere i giocatori mutilati. Un pomeriggio, al pozzo, sotto il sole cocente, Kalifa si è finalmente aperto e ha iniziato a parlare intavolando un discorso sensato. Almeno per lui. Mi ha raccontato un sacco di cose e in quell’occasione sono stato io a fare soltanto cenni con la testa come se ci intendessimo. In realtà non abbiamo mai capito una parola l’uno dell’altro e, se non fosse stato per un ragazzino più grande, non avrei mai nemmeno saputo come si chiamasse. Durante la mattina in cui abbiamo distribuito l’ultima razione di riso si è presentato con il suo fratellino per farlo mangiare, un Kalifa in miniatura, uguale a lui. Andando via mi ha salutato come ormai era abituato a fare, pronunciando le solite incomprensibili parole, sapendo che mi avrebbe rivisto nel pomeriggio. Non poteva immaginare che non mi avrebbe più incontrato e che l’indomani sarei ripartito ma a me piace pensare che, il giorno in cui tornerò e passeggeremo di nuovo insieme, battendo le dita della mano sul petto per indicare se stesso, mi guarderà e dirà “Kalifa”.
Se vuoi…