Allora ti auguro “una buona frutta” e un buon vento gelido. Il pranzo è finito, andiamo in pace. Chiamo il cameriere e ti saluto, se mi va ti telefono. Tu però puoi chiamare quando vuoi, anche cinquanta volte al giorno. Potrei non risponderti perché non sempre mi porto dietro il cellulare. Ma chiama. Sì. Dico sempre sì. La notte soprattutto, quando si è diversi, più predisposti a venirsi incontro, ad abbracciarsi, ad andare a Parigi, ad andare a un concerto. Lenny Kravitz viene in Italia, a giugno. Lo preferivo prima quando era più aggressivo e vario, più rocchettaro, ora mi sembra troppo melodico. Però un concerto è sempre un concerto, lo spettacolo è assicurato. Quello di Madonna, lo scorso anno, è stato fantastico ma si dice che alcuni pezzi li abbia cantati in playback. I settanta euro però sono stati ben spesi. Non sono pochi. Ci vai a Parigi con settanta euro, andata e ritorno. Non bastano per andare in Sardegna ma a Parigi sì, partendo da Roma. Potremmo vederci lì, ma vieni tu a prendermi all’aeroporto. Potremmo divertirci. Abbiamo molte cose in comune. Anche a me piace il nuoto, nuotavo fino a qualche fa, facevo agonismo, stile libero e dorso. Sono alta e longilinea, ancora oggi si vedono le spalle da nuotatrice ma non sono una modella da morire. Che poi i belli da morire lasciano il tempo che trovano, l’attrazione fisica è importante ma deve essere a corroborazione di quella mentale, interiore, intellettuale. Anche se ti conosco poco, penso che la tua bellezza si richiuda proprio in questo. Sei davvero carino tu. Ma bisogna avere il fisico per vestirsi da gladiatore. Giusto stamattina ho confessato in privato a batman di essere un uomo, devo proteggere la mia privacy. Ma ho la coscienza sporca. Io invece a carnevale mi vestirei da infermiera. Le foto te le faccio io. E mandami una tua foto, porca puttana. Ti ho dato la mia mail, se ti va puoi usarla. Nel senso che le foto sono una cosa come un’altra. Quella della copertina del libro sono io ma cambierei sia la foto che il titolo. Solo che non si può.
In sintesi, è andata così. Il pranzo è finito. Prendo la frutta, la frutta che aveva già preso me ancor prima di entrare al ristorante. E’ uva. Ne mangio un chicco, poi un altro. Sembra buona. Lo è. Vorrei che non finisse. Ma le alternative sono due: o la mangio, gustandone il sapore finché mi viene concesso, sapendo che non mi resterà niente se non quel senso di sazietà destinato a svanire, o la lascio nella speranza, vana, di poterla ritrovare ma forte del ricordo di quel gusto che ho assaporato appieno.
L’ho lasciata.
Se vuoi…